Mamma per caso e per amore

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Mamma per caso e per amore

“Se io sarei”
“Fossi Giosuè, fossi.”
“Oh mamma, che barba, se io fossi…”
Carmela scompiglia la testa del figlio con un affettuoso scappellotto. Nonostante la terza elementare, la coniugazione dei verbi resta un insondabile mistero per il suo bambino. Non che come mamma si possa lamentare per carità, ma la scuola è sempre stata motivo di contrasto con Giosuè. Lui ha le ali ai piedi ed è nato con gli scarpini da calcio e la divisa. Tanto tempo dietro ad un pallone e poco tempo sopra ai libri.

Carmela sospira, dovrà stringere un po’ le briglie al suo puledrino, ma non è il momento. Questo è il momento della buona notte e ogni ramanzina è bandita per tacito accordo. Il rito si ripete sera dopo sera: sempre uguale e sempre diverso. La cena, la doccia, i denti, una favola, un bacio e la luce spenta a sigillo di un’altra giornata vissuta.

Da quando Giosuè ha imparato a leggere, si alternano con le pagine del grande libro di favole regalato da papà Mario. Una sera la mamma e una sera il piccolo ometto che si sente già grande.
Ogni tanto a loro si aggiunge papà Mario. Il nome è d’obbligo e Giosuè non lo chiama mai solo papà. Non è il suo papà, ma è come se lo fosse. Non è solo Mario, ma non si può negare che lo sia. E così è diventato papà Mario, un ruolo difficile, ma che interpreta divinamente.

“Mamma! Ho dimenticato di dare da mangiare a Polly”.
Giosuè si alza di scatto e corre verso il salotto. Polly, il suo criceto con un nome da pappagallo, squittisce forte all’apertura della gabbia. Carmela sente Giosuè che gli parla dolcemente: “Buono Polly, sta buono. Non ti faccio niente.” Ha già sentito quella frase, quasi identica, ma pronunciata con astio represso e fretta impellente. Ha già vissuto quella scena, mille e ancora mille volte. Nella penombra della camera, i ricordi tornano a galla.

“Buona ragazza, sta buona. Non ti faccio niente.”
L’uomo le si avvicina con passo deciso. Gli occhi lampeggiano di lussuria, illuminati di verde dal neon della farmacia del vicolo. Un vicolo chiuso e cieco da cui è impossibile scappare.
Carmela si guarda attorno disperata. Non passa nessuno, la notte è fonda ed è sola.

La serata è iniziata nel migliore dei modi: “Lucilla festeggia i 20 anni sta sera. Vieni con noi?” Pasquale la guarda dietro gli occhiali scuri da figo tenebroso. Non gli piacciono, ma gli danno un’aria da macho niente male e sulle ragazze fa colpo. Carmela sprizza gioia da tutti i pori. Al paese non c’è mai nulla da fare e nessuna emozione da vivere. È così raro ricevere un invito, soprattutto perché i grandi, di solito, snobbano i piccoli. Non che Carmela si senta piccola. Dall’alto dei suoi 16 anni è convinta di essere donna di mondo, ma evidentemente i bei ventenni che la circondano la pensano in altro modo.

Anche Pasquale, il suo fratellone, non la considera più di tanto, ma sta volta la mamma è stata chiara: “O porti anche Carmela alla festa o sta sera non esci!” E così eccolo qui, ad estendere l’invito di Lucilla alla sorellina rompiscatole. Che poi è proprio una sfortuna nera che Carmela sia a casa. Di solito in questo periodo è dai nonni al mare, ma quest’anno nonna Concetta ha ben pensato di rompersi il femore e a lui è rimasto il compito di fare da babysitter alla mocciosetta. Pazienza, d’altronde anche i bei tenebrosi possono nascondere un lato tenero che piace sempre tanto alle ragazze. Forse potrà sfruttare la cosa a suo vantaggio.

“Certo che ci vengo!”
Carmela corre a prepararsi. Che caso! Che fortuna non essere dai nonni, si sarebbe persa una festa favolosa. Nella sua acerba maturità, considera il femore rotto della nonna una benedizione. Certo, un po’ le spiace per lei: ma vuoi mettere? Una festa! E per i 20 anni per giunta!

In macchina Carmela è un fiume in piena. Inonda il fratello di frasi e parole. Non tutte coerenti, ma tutte sicuramente non apprezzate. Pasquale è lontano mille miglia con il pensiero. Sta sera vuole riuscire a far colpo su Lola, strapparle almeno un bacio se non addirittura una palpatina.

Arrivati alla festa il fratello sparisce nei meandri di una casa che a Carmela sembra un palazzo. Lampadari sfarzosi, grandi quadri di nature morte, vasi di fine porcellana. Ben presto l’euforia scema in disagio. Non conosce nessuno, nessuno le rivolge nemmeno uno sguardo e la musica assordante le rimbomba nelle orecchie. Carmela cammina rasente i muri e osserva la bella gioventù che la circonda.
Un po’ alticcia forse e anche un po’ antipatica e sicuramente snob e forse…

I pensieri vengono interrotti da una brusca spinta di un giovane che da alticcio è diventato ubriaco. Carmela sbatte contro il tavolino di vetro alla sua destra e il vaso, che svettava orgoglioso ed elegante, si scompone ora in una miriade di frammenti taglienti sparpagliati sul legno scuro del parquet a lisca di pesce. La musica alta ha nascosto il fragore dell’impatto e il ragazzo ubriaco è sparito di nuovo nella folla che si muove all’unisono come un banco di aringhe di cui Carmela non fa parte.
La vergogna l’assale. Non vuole farsi trovare lì quando Lucilla, regina della festa, si accorgerà del misfatto. Significherebbe essere radiata dal gruppo dei grandi per l’eternità.

Carmela esce dalla porta posteriore e inizia a camminare. Aspetterà Pasquale alla macchina. Spera che si stanchi presto di corre dietro a quella vanesia di Lola e si decida a tornare a casa. Non ha troppa voglia di stare fuori da sola. All’improvviso si accorge che i passi che risuonano sul marciapiede non sono solo i suoi. Un ghigno crudele l’accoglie quando si vola a controllare. Inizia a correre, ma le sue corte gambe non sono veloci.

Così ora è nel vicolo. La voce del vero padre di Giosuè la spoglia strato dopo strato già solo con parole oscene. Le mani sono sudate e stringono forte. I calzoni vengono calati con fare veloce ed esperto e la gonna alzata. Una mano trattiene in gola l’urlo di Carmela. Uno schizzo di saliva la colpisce negli occhi che vengono serrati di scatto. Forse è meglio così, forse se non guarda non succederà.

Nove mesi dopo è nato suo figlio. Un figlio solo suo e di nessun altro. Un figlio che ama sopra ogni cosa, ma che mai ci sarebbe stato se il caso malefico non si fosse insinuato nella sua vita di giovane ragazza. Un caso malefico che ha creato un bambino così bello, da chiamarlo con il nome di un poeta.

Poi è arrivato Mario a lavare via la vergogna e il dolore. Ad aprire le porte all’affetto e alla rinascita. Mario marito e Mario papà. Giosuè non sa nulla del suo vero padre. Per ora è troppo piccolo e forse sarà troppo piccolo anche da adulto per sapere che è il figlio di una violenza che non doveva esserci.

“Mamma, Polly ha mangiato come un maiale!”
Carmela si riscuote dal passato e torna al presente: “Se continui a farlo ingrassare, per Natale lo facciamo arrosto con le patate!” La risata argentina del bambino è un balsamo per una mamma per caso che felice osserva il suo ometto.

“Giosuè, cosa stavi per dirmi prima?”
“Mamma, ma se io sarei un altro bambino, mi ameresti di più?”
“No Giosuè, non potrei amarti più di così. Tu sei mio figlio, il mio piccolo grande ometto.”
Mamma e figlio si abbracciano. L’amore, in questo caso, cancella anche un errore di grammatica.

Racconto partecipante al concorso “Emanuela Radice 2018” indetto da Bottega Letteraria.
Se i racconti con un velo di malinconia ti suscitano forti emozioni, prova a leggere “Spirito di montagna“.

Una lettura di BluttaBlatta
Suoni: Freesound Eelke, Kingsrow, Ondrosik

Chi ha scritto questo racconto

BluttaBlatta

"Un marito.
Due gatti.
Tanti libri.
Mille parole.
"
Martina Ravioli