La Panchina

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La panchina

Ebbene sì, sono una panchina.

Oh non pensiate di aver frainteso, perché avete capito benissimo. Sono una normalissima, vecchia, scrostata panchina che ha visto tempi migliori. Mi trovo in un posto speciale però: un solitario spuntone di roccia a lato di un sentiero poco conosciuto, ma tanto più bello. Chi si accomoda sulle mie scolorite assi di legno ha davanti a sé un panorama straordinario. Una di quelle cartoline che ti riempiono occhi e cuore e smuovono qualcosa in fondo all’anima. Qualcuno lo chiama “creato”, qualcun altro catena montuosa, altri ancora natura. Per gli uni è segno tangibile dell’esistenza di un Dio, qualunque esso sia, per altri è lo specchio della propria felicità o, talvolta, dell’intrinseca caducità dell’essere umano di fronte all’eternità dell’universo.
Per me è un buon punto d’osservazione.

La solitudine invernale quassù può essere pesante come la coltre di neve che mi ricopre, ma quando la bella stagione torna a bussare alla porta dell’umana pigrizia ecco che qualche sparuto camminatore arriva a trovarmi.

In tanti decenni ho avuto il privilegio di ospitare le più svariate chiappe. Ah cari miei: non pensiate che i sederi siano tutti uguali! Ce ne sono di morbidi e burrosi che ispirano tenerezza. Di sodi e muscolosi che suscitano un po’ di invidia. Poi ci sono quelli magri magri e con le ossa sporgenti e in questo caso sono dolori. Provate voi a stare fermi e immobili mentre tra le fibre vi si conficcano spuntoni di femore e spigolosi bacini: rimango ammaccata per ore! Alcuni, invece, sono proprio degli augusti deretani e suscitano rispetto, altri, sono fasciati in improbabili braghe tecniche viola sbrilluccicoso: un vero obbrobrio! Ci sono le scattanti natiche dei bimbi e gli stanchi fondoschiena dei nonni. E per quanto mi piaccia avere intere famiglie appollaiate su di me a banchettare con panini imbottiti come tanti uccelletti in un nido di briciole, preferisco di gran lunga i visitatori solitari. Con questi sì che entro in confidenza e ne ascolto gioie e dolori, pianti e sorrisi, chiacchiere solitarie e silenzi che urlano.

Giosuè è sbucato dal bosco poco dopo che si è sciolta l’ultima neve. Ero sicura di veder comparire anche Maria, ma così non è stato. Il passo dell’uomo era più pesante del solito e si è lasciato cadere su di me a peso morto. In breve tempo la mia prima asse, che ancora ha qualche raro segno dell’originaria vernice verde, si è inumidita. Giosuè aveva iniziato a piovere. Pioveva il dolore di un uomo rimasto solo. Piovevano gocce di tristezza e di rabbia. Piovevano ricordi ancora troppo annebbiati dal lutto per dare all’uomo la forza di trovarvi conforto. Le lacrime erano calde e avrei tanto voluto che il mio legno fosse più flessibile per stringere in un abbraccio quell’anima persa e rimasta orfana della sua metà, strappata alla fatica della vita da un male repentino e incurabile durante l’inverno.

“Oh Maria, ma perchè? Perché mi hai lasciato da solo!? E tu, Dio lontano e altero, se fossi buono come dicono non l’avresti lasciata morire…”
Cosa potevo dirgli? Nulla. E anche se avessi potuto parlare, non ci sarebbero state parole adatte. Con questo tipo di solitudine si impara a convivere, forse, ma di sicuro non se ne guarisce mai.

Per uno che piange, un’altra invece rideva. Qualche settimana dopo è arrivata Carolina. L’ho sentita già da lontano. Oh come cantava: a pieni polmoni e con una gioia genuina. Lei è l’unica che mi saluta sempre – “Ciao Pan! Quanti mesi che non ci si vede!” – e anche se non capirò mai questa abitudine tutta giovanile di abbreviare anche “l’inabbreviabile” – perché mai da panchina sono diventata Pan proprio non me lo spiego – la vedo sempre con piacere.

Si è seduta è ha iniziato a raccontare e, anche se apparentemente si rivolgeva a me, ho avuto l’impressione che fosse più che altro un discorso con se stessa. Che strani che siete voi umani, vi fate un sacco di problemi a parlare da soli. Ho come l’impressione che la cosa vi spaventi, che vi faccia sentire matti, ma non dovremmo forse essere aperti e sinceri tra noi e noi prima che con il resto dell’umanità?

“Sai Pan, avevo proprio bisogno di venire quassù in santa pace e beata solitudine. Giù in valle mi stanno succedendo un sacco di cose e una pausa lontano dal rumore del mondo è quello che mi serviva per riordinare i pensieri. Quest’anno finisco il liceo e devo decidere che cosa fare della mia vita. Vorrei studiare, ma andare all’università significa andare lontano, ritrovarmi da sola senza Marco e io senza di lui non so vivere. Te lo devo presentare una volta o l’altra il mio fidanzato, ma sai lui è un tale pigrone…”

E via ad inondarmi di parole e parole: un fiume in piena era Carolina! La paura della solitudine dai primi amori. Meno male che non ha incontrato Giosuè: ogni tappa della vita va vissuta al momento giusto. In questo caso le parole le avrei avute: le avrei detto di buttarsi, di vivere la vita al massimo, che la solitudine in una città lontana può spaventare, ma permette di trovare nuove compagnie, nuove esperienze, nuova vita! Le avrei detto che se è vero amore il loro rapporto resisterà a tutto, le avrei detto che…
Ma cosa voglio dirle io? Che non ho mai mosso il mio basamento da qui? Facile parlare con le emozioni degli altri. Comunque, bando alle ciance, per una che va eccone un’altra che arriva.

Suor Anna viene quassù tutte i venerdì pomeriggio d’estate. È il suo modo per avvicinarsi al Signore. Vi parrà strano, ma quasi tutti quelli che arrivano qui hanno un pensiero per il divino. Chi come Giosuè lo rinnega, chi come Suor Anna lo ricerca. Non per fare della filosofia spicciola, ma torno a dirvi, cari miei umani, che da soli non ci sapete proprio stare e così, quando vi ci ritrovate, ecco che iniziate a dialogare con qualcosa di più grande, che sia Dio, l’anima, il dolore, l’amore o qualsivoglia entità vi riempia testa e pensieri in quel momento. E io cosa dovrei dire allora? Vivo solo attraverso di voi, ma non mi lamento mica… oppure sì?

“Padre nostro che sei nei cieli…” Ecco, Suor Anna si è immersa nella sua meditazione. Se la conosco, ne avrà per un po’. Spero che non la disturbi nessuno perchè lei viene qui proprio per cercare il silenzio e la concentrazione che solo la solitudine cercata e voluta può dare.

Spero soprattutto che non arrivi Giacomo. Per quanto non mi piaccia avere sentimenti ostili, lui mi suscita una tale rabbia che vorrei fargli lo sgambetto ogni volta che lo vedo avvicinarsi.
“Sì Lara, manda pure avanti la fattura. No, non ti preoccupare per l’IVA, ora la controllo io… aspetta, ti devo lasciare, mi suona l’altro telefono.”
“Oh Ragioniere, buon giorno. Ma no che non mi sono dimenticato di scriverle. No, non sono in ufficio, ma le mando subito una mail.”
“Marco presto, girami la pratica del ragionier Colazzi, devo mandargli un rapporto immediatamente…”

Ecco. Giacomo è qui da meno di 2 minuti e ha già parlato con 3 persone diverse, inviato 4 mail e risposto ad altrettanti messaggi. Io lo so: lui vorrebbe staccare la spina. Viene qui apposta. Desidera riuscire ad estraniarsi dalla folle frenesia quotidiana. Si rende probabilmente conto di essere solo una rotella minuscola del gigantesco ingranaggio della corsa al successo, ma questa consapevolezza gli fa paura. Ha paura di non potersi permettere neanche una pausa. Ha il terrore di restare escluso, di ritrovarsi solo, di venir ostracizzato dall’unica realtà che conosce: quella fatta di budget, addendi, dividendi, profitti.

Spero che si renda conto che, pur circondato da decine di persone, in realtà è più solo che mai. Spero di vederlo arrivare un giorno senza cellulare, senza quella ruga di preoccupazione dritta sulla fronte che negli anni è diventata un solco profondo quasi come le mie spaccature. Queste, però, sono dovute al sole e al vento, alla pioggia e alla neve. La sua, invece, è di un genere peggiore: l’ansia da prestazione che forse porta al successo, ma di sicuro ti ci porta da solo. La moglie lo ha lasciato diversi mesi fa. Per forza: non aveva mai tempo per lei! E il figlio ormai lo vedrà sì e no una volta al mese. L’anno scorso lo ha portato qui. Un bel biondino di circa dieci anni. Si sono fermati per una ventina di minuti. Giusto il tempo di rispondere 6 volte al telefono, scrivere 5 mail e lasciare un messaggio sulla segreteria dell’ufficio. Mentre il papà era altrove con la testa, il bambino ha visto 2 scoiattoli, 4 lumachine e 3 nuvole che sembravano cavalli. Mi ha anche fatto una carezza e ha sospirato. Due anime sole e infelici.

Poi c’è Isafan. È sbucato un giorno per caso e da allora arriva un paio di volte ogni stagione. Dice sempre che quando viene qui da solo, solo non si sente, mentre giù in valle, circondato da un popolo che non è il suo, soffre il male di tutti coloro che sono costretti a forza in un posto che del nome “casa” ha solo l’accezione ingegneristica, quattro mura e un tetto, e spesso nemmeno quella. Isafan non crede che gli altri siano cattivi, ma è consapevole che per molto tempo lui è stato solo un fantasma in questi luoghi. La folla gli passava accanto senza vederlo o, tutt’al più, con sentimenti di fastidio e timore.

Da qualche mese, però, la strada dell’integrazione sembra intrapresa e il nero velo della solitudine viene talvolta squarciato da un ancora frettoloso “Buongiorno” mormorato a mezza voce da chi lo incontra per strada. Ci vorrà tempo per sostituire la distanza della separazione con il calore della comunione, ma come dice Isafan succederà, se Dio vuole: Inshallah. Io, per intanto, presto volentieri il mio bracciolo alla stretta della sua mano che si accompagna all’andamento dei pensieri e a volte stritola il ferro arrugginito del mio stanco scheletro, mentre altre lo accarezza con fare sognante inseguendo chissà quali ricordi del passato o speranze per il futuro.

Ma guarda un po’ chi sta arrivando: Giosuè! E non è solo. Una bellissima cagnolina color miele gli trotterella accanto. Non amo particolarmente le zampe infangate che raspano sulla mia seduta, ma in questo caso farò un’eccezione. Il sorriso di Giosuè val bene qualche graffio ulteriore, tanto qui, se non si decidono a darmi una rinfrescata, nessuno potrà neppure immaginare che un tempo ero di un bel verde brillante.

“Vieni Laila guarda. Guarda che bel panorama. Sai venivo sempre qui con Maria…” e una goccia di pioggia è caduta dagli occhi dell’uomo, ma il temporale che rischiava di straripare è stato spazzato via da un sorriso triste e dolcissimo. “Sai Laila, mi manca tanto, ma qui sto bene. Lei amava questo posto e quando vengo qui la sento vicino. Non mi sento solo…”
Tempo di mangiare un panino, metà l’uomo e metà il quattrozampe e la coppia è ripartita.

Mi ha lasciato con una domanda. Ma la solitudine quante forme ha? Per Giosuè è spesso tristezza, da colmare con ricordi e affetto. Per Carolina è la necessità di avere modo di schiarirsi le idee senza influssi esterni, ma anche la paura del nuovo. Per Isafan è l’essere dovuto scappare dalla patria, per arrivare in una casa forse non ancora pronta ad accoglierlo. Per Suor Anna è vicinanza con il senso della sua vita – che lei chiama Dio, ma io nella mia infinita ignoranza, credo che possa avere molti nomi diversi – e per Giacomo è il non rendersi conto che essere circondati da gente e voler stare sempre sulla cresta dell’onda lo porta lontano dalle cose più importanti. Per quanto a volte vorrei fargli lo sgambetto, spero che se ne accorga, prima di ritrovarsi solo e pieno di rimpianti.

E per me cos’è la solitudine? Vi dirò, non so dare una definizione precisa, ma forse non c’è neppure. Forse è quando qualcuno mi passa vicino e mi trova troppo vecchia e sporca per fermarsi qui da me; forse è quando gli operai sistemano lo steccato che mi separa dal dirupo, ma non avanzano mai un po’ di vernice per nutrire il mio legno stanco e secco; forse è quando mi lasciano piena di rifiuti. Di sicuro non è quando cade la prima neve e so che per un po’ non verrà nessuno a trovarmi: questo è meritato riposo. Di sicuro non è quando all’alba nessun escursionista è ancora arrivato e io mi godo da sola il sorgere di un nuovo giorno, facendo il pieno di tepore che restituirò poi ai più svariati sederi nel corso della giornata. E di sicuro non è neppure quando sarò troppo vecchia per sostenere il vostro peso e decideranno di sostituirmi.

Perché ve lo dico? Perchè una vita vissuta pienamente può anche concludersi, ma l’importante è che nell’esistenza ci si prenda cura gli uni degli altri. Qualche volta sosterrete il peso di chi è troppo stanco per continuare e qualche volta sarete voi ad essere sostenuti da altri lungo il cammino della vita. Se questo è il vostro percorso, la solitudine non deve farvi paura.

Ah, per la cronaca: sono solo una panchina e quindi non ho un’anima. Da dove arriva questo racconto? Facile: dalla connessione che unisce tutte le cose e dal fluire delle emozioni. Pensateci la prossima volta che appoggerete le vostre chiappe su di me. Lasciate un pensiero gentile per il prossimo viandante e nessuno sarà mai più solo.

Racconto partecipante al concorso “La Quara 2021“. Il tema dell’edizione, svolta come d’abitudine con il Corriere della sera, era “la solitudine“.
Scopri tanti altri racconti di ricordi e sensazioni nella sezione “memoria“.

Una lettura di BluttaBlatta
Suoni: Freesound Omegazeta, Nickrave, Alucardsbride, Chazzravenelle, Katjajansen1997
Musiche incompetech.com: “On Hold for You” di Kevin MacLeod

Chi ha scritto questo racconto

BluttaBlatta

"Un marito.
Due gatti.
Tanti libri.
Mille parole.
"
Martina Ravioli