I segni del tempo

I
L'orologio come segno del tempo che passa

Le ragnatele si sfaldano in mille fili che pendono dal soffitto macchiato d’umidità.
Il filo più lungo sfiora la fronte di nonno. Lollo osserva affascinato il lento movimento di milioni di particelle che danzano attorno al vecchio lavoro di un antico ragno. Il sole radente penetra dalla finestrella e svela un microcosmo di polvere e ricordi, oscurato a tratti dalle ombre dei passanti sul marciapiede battuto.

“Lollo, attento a quelle punte di trapano.”
Il nonno lo guida nel vecchio magazzino interrato, sepolcro del passato e rimessa del presente.
In un angolo in penombra sono ammucchiati bauli, scatole, casse e sacchi di cemento ormai rappreso. Nonno sbuffa. Le forti braccia spostano il prezioso ciarpame e svelano due ante di legno scurite dal tempo.

“Eccolo qui Lollo, il vecchio portone di nonna Tinuccia. Vieni dammi una mano.” Augusto osserva il bambino che avanza verso di lui. Con quelle piccole manine paffute e il visino da angelico diavoletto, potrà dargli ben poco aiuto. Non importa. L’importante è che ci sia, l’importante è donare del tempo prezioso, raccontare una storia e irrobustirne le radici, prima che il tumore vinca la sua battaglia.

I genitori sono morti due anni prima. Una nebbia da tagliare con il coltello, un’autostrada troppo veloce, la fretta impellente di un appuntamento vitale e la vita volata via tra lamiere contorte e portiere chiuse come una trappola dal peso delle auto accatastate. I giornali ne hanno parlato per giorni. Un tamponamento a catena che ha coinvolto troppi veicoli per concedere il lusso di non fare morti.
In diciassette hanno abbandonato parenti e amici e Lollo è andato a vivere con i nonni.
Nonna Teresa non ha retto alla morte della figlia e dopo pochi mesi si è lasciata andare. Ha voluto raggiungerla là dove i vivi non possono entrare. Augusto ha pensato di farla finita, ma non poteva, non aveva il coraggio o forse la codardia, di lasciare da solo il suo piccolo soldo di cacio. Ora deve sbrigarsi.

Si ricorda quando, da bambino, aiutava a fare il fieno per le vacche. Il fienile doveva essere pieno fino a scoppiare prima dell’arrivo delle piogge autunnali. Questo vuole fare, dare a Lollo abbastanza amore e abbastanza ricordi da permettergli di superare l’inverno d’affetto che lo aspetta a breve.

“Lollo guarda, guarda qui in basso: cosa vedi?” Augusto, sornione, osserva il nipote.
“La barca nonno, la barca!” Lollo sgrana gli occhi e osserva la piccola barca intagliata vicino al cardine dell’anta in legno massiccio. Il nonno sospira felice. Una mano cala ad accarezzare la testa riccioluta che si muove a cercare altri dettagli lungo le ante del portone, lungo i battenti del tempo.

Quante ne aveva prese! E guai a confidarsi con la mamma: “Nonna Tinuccia ha ragione Augusto! Guai a te se ti ripeschiamo a intagliare il portone con il falcetto!”
Una barca, aveva solo disegnato una piccola barca. Da quando lo zio Luigi era partito per le Americhe, ad Augusto era presa la smania per il mare. Non lo aveva mai visto in verità. Tutta la sua vita era lì, rinchiusa in quel piccolo angolo di mondo tra la pianura e i monti. Una terra bellissima e feconda, ma questo lo avrebbe capito solo molti anni dopo. Per il momento il ponte sopra le polle piene di trote del torrente è il confine del suo universo e la grande casa è mamma affettuosa e matrigna crudele al tempo stesso.

La nonna lo ha pescato proprio mentre ultimava la vela di quello che, nella sua immaginazione, avrebbe dovuto essere un meraviglioso e feroce galeone, ma assomigliava di più a una rachitica zattera.
Quante ne aveva prese! Nonna Tinuccia era scesa dall’alto del suo metro e cinquanta con uno scapaccione da risvegliare i morti. Anni dopo Augusto ancora se la ricorda la nonna Tinuccia, sempre imponente nei suoi ricordi di bambino. D’altronde era un soldo di cacio anche lui.
“Non ti azzardare mai più a rovinare il portùn del bisnonno Alfio.” E giù il secondo scappellotto da far tremare i denti.

“Ma nonno! Il portone è di nonna Tinuccia o di bisnonno Alfio?” Lollo lo guarda senza capire. “Il portùn è di tutti Lollo, il portùn è la nostra storia.”

Già, storia lo era davvero. Probabilmente il bisnonno Alfio, a sua volta, aveva un qualche avo a cui attribuire il portone. Il legno era indurito dal tempo e talmente scuro da nascondere anche le venature di vita che un tempo lo avevano percorso.
Il piccolo Augusto lo osserva indignato dall’altro lato del cortile. La sera accende le stelle e dalla finestra aperta scappa un profumo di latte e polenta che scalda l’anima.

La prima guerra non la ricorda Augusto, era nato da troppo poco per avere ricordi. Era venuto al mondo al pianterreno di quel vecchio casolare, tra le urla della madre al primo parto e gli incitamenti della comare che di parti ne aveva visti fin troppi: “Spingi Lisetta, spingi che l’è föra!”. Era venuto al mondo mentre fuori dal portone, sulla vicina strada sterrata, marciavano cenciosi e vittoriosi soldati, ed era stato battezzato con la pace. Dopo di lui altri cinque figli. Sei bocche da sfamare e dodici gambe che corrono nel cortile.

E ora il mare. Quanti sogni, quanta voglia di spalancare quelle porte e fuggire verso le onde. Peccato che Augusto non sapeva neppure nuotare e così era cresciuto al paese, tra asini, vacche da mungere e campi da arare. Il vecchio maniscalco gli aveva passato ferri e mestiere e l’officina cresceva bene.

“Voglio le rose bianche tutte intorno al cortile e il portone addobbato con glicine e lillà.”

“Cos’è il lillà nonno?” La capacità di Lollo di interrompere il passato è disperazione e delizia. Il fluire dei ricordi è ormai quasi indipendente dalla volontà di Augusto ed arrestarsi gli costa sempre più fatica. Le parole vogliono fuggire, passare di bocca in bocca, dipingere un quadro che non esiste più. Il cuore ha aperto i battenti e si svuota di ricordi, riempiendosi di vita.

“È un fiore Lorenzo, un piccolo fiore viola. Hai presente i fiori che portiamo sempre sulla tomba di nonna Teresa quando andiamo a trovarla dopo l’asilo?” Il bambino annuisce. Già, l’asilo. Ormai è grande e l’anno prossimo andrà a scuola. Non gli piace tanto l’idea. Il nonno gli ha detto che la scuola sarà bellissima, ma un po’ lontana e che quindi dovrà dormire lì insieme ai suoi compagni e che forse non si vedranno per parecchio tempo. Per asciugare le lacrime della notizia Augusto ha portato il nipote a mangiare un gelato e poi a fare una bella fotografia insieme. “Così quando saremo lontani ti ricorderai del tuo nonno e del bene che ti vuole!”. Lollo avrebbe capito solo molto tempo dopo che quella foto era l’inizio dell’addio.

“Teresa, mia cara: ma dove le troviamo le rose bianche?”
Al matrimonio mancano poco più di 3 mesi, che sarebbero diventanti 5 anni. La guerra ha allungato il tempo dei preparativi e le rose bianche sono diventate l’ultimo dei problemi.
Augusto è partito per il fronte e il portone, da solo, non è bastato a proteggere i rimasti dalla fame, dalle violenze e dalla disperazione.
Le lettere arrivavano a stento e spesso rovinate a tal punto da rendere leggibile solo qualche parola. Mai rovinate abbastanza, però, per cancellare il grondante carico di affetto e nostalgia che contengono.

Una sera un gruppo di disperati bussa alla vecchia casa. Teresa ha paura, non vorrebbe aprire e nonna Tinuccia è troppo vecchia, e forse rassegnata, per prendere qualsiasi decisione. Lisetta, tremante nel vecchio scialle di lana rossa, si affaccia alla finestra del primo piano. Tre figure incappucciate, scalze e piegate dal freddo e dalla fame sono accasciate fuori dal portone.
Un cappello si solleva e due occhi neri nella nera notte la guardano imploranti. Non serve altro. Lisetta si precipita per le scale, apre il portone e subito lo sbarra con il pesante trave dietro ai fuggiaschi entrati in fretta e silenzio.

Da quella sera si sparge la voce. La vecchia casa ai piedi della collina, esatto proprio quella con il portone scuro e il glicine che si arrampica sul muro, dà rifugio a chi è braccato perché indegno, secondo alcuni, di vivere come gli altri.
Decine di anime passano per il cortile. Il tempo di ristorarsi, di riprendere fiato, di contattare chi potrà portarli in salvo altrove e poi ripartono, così, quasi senza lasciare traccia e spesso senza neppure un grazie, neanche a posteriori, neanche quando tutto è finito. Non è cattiveria, è solo voglia di dimenticare.
Hanno ammazzato Lisetta, una sera, sul finire della guerra. L’hanno ammazzata perché ha impedito a troppi di morire.

“Nonno: la bisnonna Lisetta era la tua mamma vero?”
“Si Lollo, era la mia mamma.” Augusto si asciuga una lacrima. Invecchiando è diventato decisamente più sentimentale. Da giovane ne ha viste troppe di cose per piangere. Quando è tornato al paese e ha trovato una moglie non ancora sposata e una madre uccisa alla vigilia della pace, non ha avuto il tempo di pensare, ma solo di agire e chiudere il dolore in fondo allo stomaco, lì dove solo lui può sentirlo.

Il portone non aveva i lillà, ma Dio solo sa come, Augusto è riuscito a trovare una rosa bianca che ora spicca tra i capelli della sposa, finalmente moglie, mentre volteggia sulle note della fisarmonica che suona nel cortile.
Nonna Tinuccia avrebbe fatto in tempo a stringere tra le braccia anche la bis nipotina anni dopo, prima di morire nel suo letto, al caldo e carica di ricordi, non tutti belli. Ma il giorno del matrimonio non poteva saperlo. Nessuno poteva prevedere il futuro e nessuno voleva farsi troppe domande e così le sigarette e lo zucchero che riempivano il vecchio magazzino interrato erano volutamente ignorati da tutti.

Augusto aveva riaperto l’officina e la ricostruzione portava lavoro, ma pochi soldi. Il contrabbando riempiva le notti e le scodelle. Il vecchio portone custodisce ora il prezioso carico portato a spalla da gambe robuste su e giù per i sentieri che partivano proprio dietro la vecchia cascina, e veglia un pancione ridente e scatenato.
“Ohi tusett, smettila di scalciare!” Teresa si stanca spesso al nono mese di gravidanza e la panchina in ferro, costruita dal marito e appoggiata di fianco all’uscio è un piacevole ristoro in una giornata troppo lunga per poter essere vissuta intensamente. Arianna, però, scalcia nel ventre e avrebbe scalciato anche da bambina: un peperino niente male. Una tipetta che teneva in riga tutti i monelli che avrebbero voluto infastidirla, chi per dispetto, chi per precoce corteggiamento.

“Arianna era la mia mamma? Come Lisetta era la tua?”
“Sì Lollo, Arianna era la tua mamma e Giacomo il tuo papà.”
Ma perché la vita è fatta di morte? Augusto se l’è chiesto spesso negli anni. I fantasmi dei compagni morti sul fronte lo accompagnano tutte le notti, mentre la figlia lo viene a trovare nel canto degli usignoli e la moglie nel colore dei lillà. Come cantava bene Arianna!
E proprio il canto l’aveva portata a conoscere il marito.

Giacomo aveva sentito una voce dolce e melodiosa attraverso il portone semiaperto.
Entrato nell’ombra fresca del cortile si è trovato davanti un’Erinni furiosa e furente, armata di ramazza e con due occhi lampeggianti, la bocca cucita e lo sguardo minaccioso.
“Mi scusi signorina, non volevo disturbare.”
“Via!” Arianna aveva il dono della sintesi e al contempo quello delle parole. Così, quando sei mesi dopo, Giacomo aveva chiesto la sua mano, non si era limitata ad un semplice sì, ma lo aveva inondato con un fiume di parole d’amore e all’interno del portone era comparso un nuovo graffito “Arianna e Giacomo”. Questa volta nessuna nonna Tinuccia a sbraitare e Augusto è solo felice che il portùn racconti la storia della famiglia.

È per questo che oggi ha portato qui Lorenzo, per lasciargli qualcosa di fisico quando non avrà più nulla ad abbracciarlo e per permettergli di conservare la memoria dietro due ante ben chiuse.

“Nonno vieni, ho fame.” La piccola manina di Lollo si infila tra la pelle callosa e screpolata del palmo semiaperto di Augusto. È ora di merenda e la storia della morte dei suoi genitori può aspettare ancora. La morte può sempre aspettare.

“No nonno, la morte non può aspettare.” Lorenzo si china a strappare le erbacce che crescono ai lati della tomba di Augusto e Teresa. Poche volte durante l’anno riesce a tornare al paese, poche volte durante il giorno si dimentica di pensare a suo nonno.
Il nonno lo aveva portato al collegio il primo giorno di scuola. Una bellissima scuola, piena di bambini. Un bruttissimo edifico, con le sbarre come una prigione.

“Lollo, mi raccomando fai il bravo e ogni tanto pensa a tuo nonno che ti vuole tanto bene.” Non lo avrebbe più rivisto: tumore allo stomaco. Proprio lì dove aveva nascosto tutto il suo dolore. Proprio lì dove lui si appoggiava quando il nonno gli leggeva le favole: il male e il bene nello stesso posto, come la vita, ma questo lo avrebbe capito solo anni dopo.
L’infanzia passata in orfanotrofio, la scuola e poi il liceo, la borsa di studio per l’università, la città lontana.
Il nonno gli aveva detto di fare il bravo. Lo aveva fatto.
Il nonno gli aveva regalato la sua storia. Se ne era cibato per sopravvivere.

Giulia lo aspetta appoggiata al portone spalancato. Il pancino inizia a vedersi sotto al vestito giallo di cotone leggero. Per il parto c’è tempo, siamo solo al sesto mese.
La vecchia casa è ancora là, una parte restaurata e la gran parte ancora da far rivivere. Lorenzo, per prima cosa, ha voluto ripescare il vecchio portone dal polveroso seminterrato pieno di prezioso ciarpame. È tornato fiero al suo posto. Il cortile si chiude di nuovo e presto sarà pieno di vita.

Lorenzo non poteva più aspettare, doveva tornare al paese, alla storia che mai lo ha abbandonato e alle sue radici: qui farà crescere la sua famiglia. La grande casa, mamma amorevole, custodirà il suo affetto e il portone si chiuderà sulle sue gioie e i suoi dolori.
“Nonno: non mi hai mai detto perché avevi tirato via il portùn.”
Giulia si volta: “Scusa amore, dicevi?”
Ma Lollo non ascolta, Lollo vede una piccola incisione sul battente interno dell’anta sinistra. Non l’aveva notata quel giorno nel seminterrato con il nonno.
Non c’era ancora.

Ti voglio bene Lollo, nonno Augusto.

Il vecchio portone ha parlato.
Il nonno è tornato a prenderlo all’orfanotrofio. Il nonno non lo ha abbandonato.
Forse il portùn era stato tolto per ingrandire l’entrata e permettere al grande camion dell’officina di passare.
Forse era stato tolto perché troppo vecchio e fuori moda.
Forse per preservarlo dal tempo.
O forse senza un motivo.
Non ha importanza. Domattina il portone verrà nuovamente aperto alla vita: quella presente, quella passata e quella futura.

Lorenzo ora è sicuro. Lorenzo ora sa.
Si china verso Giulia e bacia le sue labbra. Poi scende sul pancino e bacia quella vita.
Giulia sobbalza. La piccola Tinuccia si fa sentire.

Racconto arrivato tra i 10 finalisti del concorso “La Quara 2018“. Il tema dell’edizione, svolta come d’abitudine con il Corriere della sera, era “il portone“.
Scopri tanti altri racconti di ricordi e sensazioni nella sezione “memoria“.

Una lettura di BluttaBlatta
Suoni: Freesound Julien-Nicolas, Bryansmosh, Ihitokage, Florianreichelt, Reinsamba, Panikko, Lepolainyann, Madamvicious, Wakaproduction2018, Bananplyte

Chi ha scritto questo racconto

BluttaBlatta

"Un marito.
Due gatti.
Tanti libri.
Mille parole.
"
Martina Ravioli