Le statistiche del trenino: settimo capitolo

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LE STATISTICHE DEL TRENINO: SETTIMO CAPITOLO

Ecco il settimo capitolo de “Le statistiche del trenino“.
Se vi siete persi il sesto capitolo lo trovate qui.
BluttaBlatta vi augura buona lettura
.
Per scoprire di più leggi “Il bello di scrivere, leggere e ascoltare.

Luglio

Le piacciono le parole. Il potere evocativo di accozzaglie apparentemente casuali di lettere. Le descrizioni che fanno vivere attraverso la lettura. Le assonanze buffe e le frasi arzigogolate, ma intriganti.

Lucia nel tempo ha raccolto un discreto campionario di felici espressioni vocali. Partiamo da “schifidi afidi” e “blutte blatte” che, coniugando un improbabile neologismo ad un sostantivo scientifico, ben rendono l’idea di una massa infestante e schifiltosa di piccoli esseri neri, o verdi, che si muovono veloci e parzialmente buffi.

Seguono espressioni di semplice e al contempo alta poesia. Come non innamorarsi di “un greve sospiro di felicità”? Lucia ha fatto di questa frase, tratta da uno dei suoi libri più amati, un caposaldo della sua struttura verbale. Unire la felicità alla gravosa leggerezza, o leggera pesantezza, di un sospiro e delineare in uno spazio di cinque parole un intero orizzonte di sensazioni è pura maestria.

Anche coniare nuove parole è un’attività intrigante. Nascono così espressioni come prociofeca o caprorsa (forma di vita elementare e arcaica, nonché abbastanza stupida, che si basa sui bisogni elementari; appellativo spesso ironicamente e senza malvagità usato per Fabio) e sacrableu (miscuglio onomatopeico di francese, dialetto e italiano che indica sorpresa, solitamente positiva, o piacevole sconcerto).
La lista sarebbe lunga.
Lucia sale sul treno.

Le vacanze sono finite ieri sera e deve ancora bene rendersi conto di chi è, dov’è, cosa deve fare. Per prima cosa racconterà ad Ana qualche sprazzo di viaggio. I racconti lunghi li ha già riservati per la cerchia famigliare dove, volenti o nolenti, c’è più tempo e spazio. Qui no. Qui tutto deve essere schiacciato tra un buongiorno e la lista delle cose da fare.

Lucia agogna allo spazio di libera espressione e, fulmineo, le viene in mente il libro mai finito e rimasto chiuso nel cassetto dei sogni. Aveva iniziato a scrivere a 15 anni: “Bang – La fuga di un’assassina”. Strani pensieri per una quindicenne. Interessanti però. Keep ha ucciso. È colpevole e fiera di esserlo. Forse ha ragione, forse tutto è relativo. La storia si articolava bene ed è stata rimaneggiata a più riprese per affinarne il linguaggio. Ha un po’ un chiodo fisso Lucia. Poi il racconto si è arenato. Fermo, immobile e apparentemente morto. Il perché ha ucciso, la vera identità e il finale sono tutti solamente nella sua testa. Il foglio è vuoto e la carta intonsa. Non ha mai trovato il tempo, la voglia, la forza, la necessità di terminarlo. Forse è giunto anche questo momento.

“Bella quella nazione sai? Grande e minimamente popolata. Il posto che fa per me! E poi, chi lo avrebbe mai detto? Hanno una cioccolata favolosa!”
Lucia continua il racconto mentre Ana vorrebbe solo tappare le orecchie e dedicarsi al lavoro.
L’attività al doposcuola le prende più tempo del previsto, tempo da sacrificare alla professione e agli affetti famigliari.

Il terzo porto è stata una piacevole e insperata scoperta. Criticato da molti e snobbato dai più, si è aperto per Lucia con un mondo di alta qualità di vita, ordinate strutture e natura incontaminata. Le bancarelle di un mercato improvvisato vendono manufatti e leccornie e Fabio si fionda su aringhe e patate. Non ha fatto i conti con i gabbiani. Come i corvi di Hitchcock si radunano, calando dall’alto, e Fabio si ritrova a condividere aringhe e pezzi di dita con marini mostri alati. La lingua del posto è assolutamente incomprensibile, ma curiosa. Come tutto ciò che è straniero attira e spaventa allo stesso modo. Curioso pensare che il termine barbaro era stato dato dai greci ai popoli stranieri: “coloro che balbettavano”. Un po’ egocentrici i Greci, ma in fondo potevano anche esserlo. Si sarebbero rivelati, secoli dopo, i padri della società occidentale.

“E ho detto tutto.”
Lucia guarda un’Ana distante. Spesso si diverte a fare la saccente, la irrita non venir ascoltata. Deve farci l’abitudine, non è il centro del mondo neppure lei. Finito il racconto riprendono il lavoro. Un po’ più di casini rispetto a prima della partenza, un po’ più di incombenze e se possibile ancora meno voglia di fare. Il rientro è sempre così. Mezza giornata e ti viene voglia di scappare. Una giornata intera e le vacanze sono già un lontano ricordo. Una settimana e inizi a fare il conto alla rovescia per le prossime festività. La Grande Capa ultimamente è abbastanza assente. Potrebbe essere un periodo di relativa pace oppure la quiete prima della tempesta. Lo scopriranno nei prossimi giorni.

Lucia si stupisce sempre della quantità improponibile di mail che vengono inviate ad ogni ora del giorno e della notte e che, immancabilmente, si accumulano nella posta in entrata. Mail scritte alle 3:00 del mattino. Messaggi mandati tra un sorso di vino e un morso di bistecca, inutili risposte chilometriche e pubblicità a tutto spiano. Gli unici messaggi non pervenuti sono quelli che servirebbero. Ironia della sorte. Forse è vero che le cose importanti sono sempre quelle che non ci sono? O forse semplicemente le si apprezza perché l’uomo anela sempre a qualcosa che non può ottenere?

Gli uomini le si accalcano attorno, smaniosi di mostrarle quanto fatto in sua assenza. Lucia deve riconoscere che sono stati superlativi. Meglio di così non avrebbe saputo fare neppure lei. È arrivata presto questa mattina all’altopiano. Ha portato la colazione a Nando. Due brioche ancora calde che solleticano le narici. Sono cosparse di dorata granella di zucchero e nascondono un cuore di marmellata. La pasta sfoglia è fragrante e al solo guardarla le papille gustative vanno in fibrillazione. Il profumo deve essere arrivato anche a Prizziello perché ancora prima di bussare alla Cascina Marì, Nando è già fuori che la stringe in un abbraccio. Uno di quegli abbracci spaccaossa e strizzabudella. Uno di quegli abbracci che Lucia ama e odia al contempo.

“Ah Lucì! Tornasti finalmente.”
La trascina in casa e le piazza davanti una fumante tazza di tè. Non è proprio quanto Lucia aveva in mente dopo una scarpinata di 45 minuti sotto un cocente, seppur appena sorto, sole di luglio. Oggi si prospetta una di quelle giornate da 35 gradi all’ombra e preferirebbe di gran lunga una coca ghiacciata.
Guarda Nando.
Guarda la tazza.
Beve.

Alla spicciolata sono arrivati anche gli altri. Il Fabbro no. Si è fermato all’officina. Hanno scoperto che il Mott aveva un pozzo e stanno cercando di ripristinarlo. Servono carrucola, corde e attrezzi del mestiere. La Tedesca neanche. Ha già sentito il racconto anche del porto di sbarco. Mura di mattoni e canali navigabili. Acciottolati echeggianti e un ottimo, per quanto non propriamente tipico, hamburger. Oggi non riesce a salire all’altopiano la Tedesca. Deve curare il “mezzo” della famiglia. Il nipote che a settembre inizierà la scuola e si gode l’ultima estate di vera infanzia.

Lucio e Franco hanno censito tutte le piante dell’altopiano e hanno segnato quelle da abbattere il prossimo autunno. La scelta è stata saggia e ben ponderata. Il pascolo ritroverà il suo aspetto originario con prati grassi attorniati da boschetti di faggi e castagni. Ai bordi una cornice di noccioli e betulle. Lucio ha anche terminato di censire tutte le cascine e relative caratteristiche. Il progetto prende forma.

Nando, il Fabbro e Gino stanno ultimando il Mott da Gipunin. Manca solamente il pozzo all’esterno e le rifiniture all’interno. È venuto proprio bene e Lucia lo adocchia come possibile suo ritiro spirituale dal resto del mondo.

Napo e Bubu le corrono incontro dall’Osteria da Pio Sgrenchio. Una pulce e un elefante che gareggiano in leccate a pieno muso e zampate a gamba tesa. Lucio sbuca dall’arco che ospiterà l’entrata principale. La Gattara non ha saputo resistere e le tendine già si mostrano su quelle che, per ora, sono orbite vuote e che diventeranno finestre a doppio vetro. Ha giurato e spergiurato che farà tutto intonato: tende, cuscini per le sedie, tovaglie, tovaglioli, grembiuli e copri menu. Lucio la lascia fare.
Forse un po’ più che la lascia fare.
Forse la segue.
Forse c’è un futuro.
Si vedrà.

“Ho depositato all’Ufficio igiene la richiesta di licenza alimentare.”
E bravo Lucio, ha pensato anche alla burocrazia. Ora bisognerà aspettare i tempi del legno, delle tegole, del marmo e delle piastrelle, ma soprattutto quelli dell’amministrazione. Se tutto va bene entro due o tre mesi potranno partire con l’Osteria. Sarebbe bello riunirsi per Natale o Capodanno. Regalarsi una sana compagnia e una piacevole cena non è forse una bella prospettiva per l’unica notte magica in cui tutti torniamo un po’ bambini?

Non c’è stato niente da fare. I quadrupedi li ha evitati con il ragionamento. Maiali, mucche e asini aspetteranno la prossima estate per salire sull’altopiano, ma con i pennuti è stata una battaglia persa. Si è trovata davanti un fronte compatto come il muro di Berlino. Una muraglia cinese d’opposizione. Un filo spinato staliniano. In sua assenza il neoeletto comitato “Pro Cascina Marì” ha portato le galline e siccome voleva fare le cose in grande non ne ha portate due o tre. Cinquanta. Cinquanta polli ruspanti. Per la precisione 24 pollastrelle e un gallo nella stalla del Mott e altre 24 giovincelle pennute e un crestato ragazzotto nella stalla di Marì. E grazie al cielo che sono le uniche due cascine restaurate per ora, altrimenti avremmo avuto un’invasione di futuri polli allo spiedo che avrebbe dato un sequel a “Galline in fuga”.

La spiegazione è stata semplice, ma efficace.
“Lucì, abbiamo bisogno della materia prima per l’Osteria. L’orto già ci sta e i polli sono all’ingrasso. Intanto ce magniamo le ova!”
Nando strizza l’occhio agli altri allegri compari. Lucia sospira e accetta. Inutile far notare che l’Osteria aprirà, se va bene, solo a Natale. Inutile sottolineare che le galline andranno curate, sfamate, accudite e che qualcuno dovrà farlo. Inutile evidenziare che stanno mettendo in piedi una produzione di uova che sfamerà mezza provincia. In definitiva è inutile distruggere sogni e buona volontà senza motivo. Lucia si rimbocca le maniche e si mette al lavoro. Tre giorni dopo le conosce ormai tutte. Quasi tutte per nome. Strano pensare come anche un pollo possa avere una personalità.

C’è la Nerina. Una bella gallina barbuta di Anversa. Ha la rara capacità di cacciarsi sempre nei guai e già sai che se la sera una non rientra è la Nerina. Se una sta affogando nello stagno è la Nerina. Ed è sempre la Nerina che ha provato a volare e si è schiantata contro un faggio. Però produce delle ottime uova di un bel bianco crema che ti fanno venire voglia di zabaione. La nonna lo faceva sempre. Il tuorlo di un ovetto fresco fresco e due cucchiaini di zucchero. Sbattere per almeno 5 minuti ed ecco saltar fuori una crema morbida e vellutata, quasi spumosa. Una merenda che ha il sapore dell’infanzia e le calorie del cenone di Natale. Un ricostituente sano e naturale che ha fatto crescere, alternato all’olio di ricino, schiere di bambini che oggi sono padri quando non già nonni.

Poi c’è la Moroseta. La razza ancora non si è ben capita, ma di uova neanche l’ombra. Però è bella e pure morbida. Sembra quasi pelosa invece che piumata e va in giro piccola, ma impettita come una regina. Fa parte della Cascina Marì, ma Lucia è convinta abbia un debole per Don Giovanni, il gallo del Mott. Gli gira attorno tutto il giorno, ma lui non la considera minimamente. Don Giovanni è un bel giovane ruspante che ha addosso gli occhi di tutte le vicine di stia. Mica come Don Rodrigo, il gallo dell’altro gruppo. Altero e scostante ha la brutta abitudine di inseguirti per beccarti appena metti piede nel suo harem.

La preferita di Lucia, però, è Curacura. Una tipica, classica, normalissima, ebete gallina da cortile. Non ha niente di speciale e proprio per questo le piace. Non è la più bella o la più brava. Non è quella che produce le uova più numerose o più grandi. È una gallina punto e basta. Non si preoccupa del domani e neppure dell’ieri. Non ha problemi ad apparire e scomparire nella massa. Vive bene Curacura. Vive come Lucia non ha mai vissuto. Forse un po’ mediocre, forse un po’ triste. Magari in cuor suo si sentirà un’aquila e invece è solo un pollo. Forse essere speciali significa proprio avere la forza di essere normali.

Franco ha dimenticato aperto il pollaio. Lucia è in lacrime e il Fabbro e Gino stanno cercando di ripulire tutto. La volpe ha fatto strage questa notte. Così sostiene Nando. Lucio ha un occhio più attento: “Non è stata la volpe ragazzi. È stata la faina.” La volpe uccide e mangia. La faina succhia il sangue. La stalla del Mott è la scena di un delitto. Si sono salvate solo una decina di galline che ora, spaventate, sono state riunite alle compari nella stalla di Marì. Franco è bianco come un cencio. C’è sangue ovunque e i cadaveri dei polli, risucchiati dalla vita, sono sparsi sul terreno. La faina ha banchettato, non c’è che dire. Due buchi in ogni collo e il suo pasto di sangue ha avuto luogo. Naturale e selvaggio, piccolo vampiro. Apparentemente dolce, in realtà letale. Come spesso, nella vita, le apparenze ingannano. Lucia asciuga le lacrime. Si sente a pezzi. Non è la morte di Curacura la causa. È l’insieme delle cose, è la stanchezza, è la sfiducia.

Fabio mostra un po’ di senso pratico: “Lucia, non preoccuparti. Sabato andiamo dal Mornaio e facciamo tornare le galline all’altopiano.” Non piange per quello Lucia. Piange perché forse poteva evitarlo. Piange perché non ha più il controllo di niente. Piange perché non vuole che Franco ne porti la colpa. In parte è contenta. Complicata Lucia. Strano essere contenti e piangere. Però è felice di sapere che nel suo bosco apparentemente morto c’è vita e che le faine, da tempo scomparse, stanno tornando. Ma proprio con le sue galline dovevano prendersela? Non è colpa di nessuno.

Franco si avvicina abbattuto. Non ha il coraggio di guardare Lucia. Ha paura della tempesta che si abbatterà sul suo capo. Ha paura che non potrà più chiamare casa l’altopiano. Nessuno gli ha mosso nemmeno una critica, ma il silenzio e gli sguardi carichi di accuse sono più pesanti di un macigno. Lucia gli si avvicina pronta a sancirne l’allontanamento. Un moderno ostracizzato che vagherà senza patria e senza radici. Lucia lo guarda, Lucia lo abbraccia: “Franco: sabato mi accompagni dal Mornaio?”
Franco è incredulo.
Nando è orgoglioso.
Lucia ha imparato a perdonare.

Neanche l’aria del fiume dà un po’ di sollievo in questa mattinata rovente. Lucia si incammina verso la stazione, grondando ancor prima di essere arrivata al treno. Quest’oggi la poca umanità presente è calda e appiccicosa. Dal suo trespolo Lucia osserva 34 donne smanicate, 12 ragazze seminude, 9 ragazzi in maglietta stracciata, 2 bambine vestite come bomboniere, 1 alternativo con indosso quello che sembra un sacco di patate, 8 uomini in maniche di camicia e 4 signori in doppiopetto. Solamente 70 insofferenti forme di vita che sognano palme e cocktail con l’ombrellino.

Lucia si è sempre chiesta come diavolo facciano i manager a resistere in completo, con tanto di gilet, con 40 gradi all’ombra. La cosa sarebbe buffa, non fosse per il fatto che Lucia si squaglia anche in canottiera, diventa rossa come un peperone e sbuffa come un mantice. Loro no. Loro sono sereni e freschi come rose. Sembra quasi che siano appena usciti da una cella frigorifera. Misteri della managerialità. Ci sarà un corso apposito dove studiano come rimanere presentabili anche nelle condizioni più estreme? Avranno l’aria condizionata integrata nel panciotto? Per farsi passare la frustrazione Lucia si dedica alla lettura.

“Misteri impossibili” – Animalesche e floristiche strategie per resistere ad ogni clima
Voi avete caldo se la colonnina di mercurio supera i 15 gradi. Se supera i 20, l’abbassamento della pressione vi costringe a letto con il climatizzatore a palla. Voi avete freddo non appena vedete una nuvola all’orizzonte. Se alle nuvole aggiungiamo anche una goccia di acqua, ecco che la crisi isterica si trasforma in polmonite dirompente. Basta un finestrino abbassato in macchina e convivete per 3 mesi con il torcicollo. Un’incauta seduta su di una umida, ma affascinante, panchina e il vostro colpo della strega non avrà rivali. Un alito di vento è sufficiente a farvi venire, nell’ordine: mal di testa, raucedine, raffreddore, mal di gola, bronchite, cistite, distorsione della caviglia. Un gradino appena accennato e il piede malmesso vi costerà la ricostruzione bilaterale dell’anca. In parole povere facciamo pena. Siamo diventati fragili e delicati che i nonni di Neanderthal si rivolterebbero nella tomba (ammesso e non concesso che abbiano una tomba). Negli ultimi 10’000 anni abbiamo perso il 25% di massa dentaria e ossea. Ci stiamo rattrappendo, ma diventiamo sempre più alti. Inspiegabile paradosso. Grazie al cielo non siamo gli unici esseri viventi su questa terra, altrimenti potremmo chiudere per fallimento. Il mondo naturale mette in mostra una serie di strategie vincenti ed efficaci per resistere in ogni condizione o quasi. Qui ne abbiamo scelte cinque tutte da scoprire.

La rana ghiacciolo
Mentre voi vi lamentate per le temperature polari (che non scendono sotto i -3 gradi) e state appiccicati al caminetto come una caldarrosta, c’è chi ha imparato da tempo a convivere con l’inverno. Non parliamo solo di tutti gli animali che se ne infischiano bellamente di freddo e neve rifugiandosi in letargo. Non parliamo neanche degli scoiattoli che, usando la coda come coperta, mantengono nel nido 20 gradi in più che all’esterno. Non parliamo neppure degli animali che, con atavica sapienza, quando fa freddo se ne vanno, migrando verso luoghi più appetibili. Parliamo di lei: la Rana sylvatica. Questo simpatico anfibio canadese, all’avvicinarsi dell’inverno,
pompa in circolo una quantità diabetica di zucchero. In questo modo il sangue non corre il rischio di ghiacciare. Se la temperatura diventa ancora più estrema, la nostra simpatica mangiamosche si circonda di uno strato di ghiaccio protettivo, smette di respirare e si iberna. Quando torna il caldo, si “scioglie” e riprendere a vivere come se niente fosse. E tu chiamala scema!

Il topo aspira-acqua

Quando fa caldo noi umani beviamo come cammelli e sudiamo come innaffiatoi. A ben pensarci è proprio uno spreco. Gran parte dell’acqua che beviamo la ributtiamo fuori. Possiamo permettercelo perché, nonostante le varie crisi idriche, di acqua ne abbiamo ancora fortunatamente abbastanza. Nel deserto questo non succede. Avete presente quelle infinite, ondulate, ventose, distese di sabbia fine come farina e caliente come brace? Ecco, appunto, bravi: il deserto. Anche qui c’è vita, ma non c’è acqua e lo Jaculus jaculus, il topo delle piramidi lo sa bene. Deve riuscire a sfruttare tutta la poca acqua che trova e, se sprecare è sempre peccato, per lui lo è ancora di più. È questione di vita o di morte. Avete mai fatto caso a quelle nuvolette di vapore condensato che emettiamo in inverno? Il nostro respiro contiene acqua e lo Jaculus ha imparato a sfruttarla. All’interno del naso ha un fitto rivestimento di peli e un’estesa rete di capillari. Raffredda l’aria in entrata e cattura l’acqua presente nell’aria in uscita. Una sorta di condizionatore animale. Sfrutta fino all’ultima, microscopica goccia.

La capra alpinista
Fate parte di quella schiera di baldi uomini a cui viene la tachicardia alla sola idea di salire su di una scala a pioli? Avete difficoltà ad arrampicarvi su di una sedia per cambiare la lampadina del lampadario art decò del salotto? Amate le piatte pianure a fuggite anche il minimo rilievo? Soffrite di vertigini alla sola idea di guardare giù dalla finestra? Abbiamo l’animale da compagnia perfetto per voi: lo stambecco. La Capra ibex ha fatto dell’altezza il suo ambiente ideale e sfida pendenze che si avvicinano più alla verticalità che all’orizzontalità. Le zampe del peloso alpinista sono corte e robuste. Gli zoccoli sono larghi e hanno suole elastiche con margini duri e taglienti. In pratica è un animale nato con gli scarponi e i ramponi incorporati. Bando ai giramenti di capo, a ”oddio mi sento svenire”, a ”aiuto voglio scendere” e via, alla conquista delle cime.

L’orso con la tuta
Trovare gli abbinamenti adatti per le varie situazioni sociali non è facile. Vestirsi adeguatamente per sopravvivere al caldo o al freddo e nel contempo essere eleganti e perfettamente integrati con l’ambiente circostante è vera bravura. Mise improponibili si vedono ad ogni angolo di strada: eleganti completi accompagnati a improbabili tennis giallo fosforescente, microscopiche gonne su macroscopiche signore, fuseaux minimal che ti chiedi se sia nuda o vestita, lugubri abiti, funeste borse che si accompagnano a scoordinate cinture. Abbiamo la soluzione. Un maestro di adattabilità ed elegante evoluzione: l’orso bianco. L’Ursus maritimus è bianco (informazione a prova di tonto) e si mimetizza perfettamente nei ghiacci polari (piccola nota – i pinguini stanno al sud e gli orsi al nord. Ficcatevelo in testa). Grazie al bianco si fonde e confonde con il paesaggio. Però, almeno fino ad ora, al polo nord fa un freddo bestia e l’orso non ha il riscaldamento incorporato. Ha quindi trovato il modo di massimizzare la poca luce e gli scarsi raggi solari che lambiscono quelle remote lande. Ebbene sì, Signore e Signori, l’orso bianco ha la pelle nera e il nero è il “non colore” che più di tutti cattura la luce. Sotto un candido manto c’è una nera tuta che permette all’amico Ursus di sfruttare il poco calore del sole disponibile. Pensateci la prossima volta che vi trovate davanti all’armadio a lambiccarvi: “ E mò…cosa mi metto?”

Il fiore zebra
A tutti è capitato di addormentarsi al sole e svegliarsi color aragosta. Quasi tutti hanno maledetto orologi o collanine che lasciano antiestetici aloni bianchi in un’abbronzatura altrimenti perfetta. Non parliamo poi degli occhiali da sole che trasformano orde di marittimi vacanzieri in panda ante litteram. Se uno è amante del ciclismo lo vedi lontano un miglio. Braccia e gambe hanno un taglio netto: abbronzatissime per metà e bianche mozzarella per l’altra metà. Lo spartiacque è la lunghezza della maglia e del pantaloncino. Vi piacerebbe non avere di questi problemi? Benissimo, nella prossima vita dovreste nascere ciclamini. Il genere Cyclamen è un allegro gruppo di ameni fiorellini che vanno dal bianco al viola scuro. Dei fiori, in realtà, ci importa poco. La genialità della prode piantina sta nelle foglie. Le foglie sono zebrate: un po’ chiare e un po’ scure. Questo perché il ciclamino vive principalmente nel sottobosco e non è mai in pieno sole o in piena ombra. Con questo adattamento sfrutta al meglio sia le situazioni di penombra che quelle di pieno sole e non rischia, ahinoi, di trasformarsi in un’aragosta. (Gli Argonauti)

Lucia è arrivata. La separano dalla lavorativa aria condizionata due Km di pieno sole e zero refrigerio. In questo momento vorrebbe essere un po’ ciclamino e un po’ topo. Può l’umana evoluzione, che tutto basa sul cervello, competere con le strategie di piante e animali che fanno del fisico il punto forte? Intelligenza vs forza, acume vs velocità: l’eterna battaglia per la sopravvivenza continua.

“Le statistiche del trenino” continua sabato 31 ottobre 2020 con un nuovo capitolo. Non perdetevelo!

Una lettura di BluttaBlatta
Suoni: Freesound Inchadney, InspectorJ, Dobroide, Juskiddink
Musiche incompetech.com: “Teddy Bear Waltz” di Kevin MacLeod

Chi ha scritto questo racconto

BluttaBlatta

"Un marito.
Due gatti.
Tanti libri.
Mille parole.
"
Martina Ravioli