Il fabbro e sua figlia

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Il fabbro e sua figlia

Mostri o macchinari?

Cosa voglia dire essere un artigiano?
Io lo so, e non per esperienza, no… non sono una paziente sarta, o un abile falegname, un creativo orafo, o un forte maniscalco, lo so di riflesso, in seconda persona se così si può dire, perché sono stata per anni la figlia di un fabbro.

I miei primi ricordi risalgono a quando avevo su per giù cinque anni; a quell’epoca l’officina di mio padre, che oggi con un termine ben più altisonante si chiama “carpenteria metallica”, appariva ai miei occhi di bambina un luogo magico e misterioso. Muri vecchi e consumati, poca luce che filtrava dai sottili vetri del portone e a fatica illuminava un ambiente polveroso, con angoli bui, occupati da strani macchinari che, nella mia fantasia, prendevano vita quasi fossero mostri, fantastici ed inquietanti al tempo stesso.

C’era la troncatrice: un’enorme e rumorosa macchina, dalla lunga bocca sottile, sempre socchiusa in un ghigno affamato… ; mio padre ci infilava le lamiere, tirava verso di sé con forza una leva consumata dall’uso, ed in un secondo, con suono sordo e minaccioso, la Perfida si era già pappata buona parte della lamina di ferro, manco fosse fatta di pasta frolla! Quante volte il mio papà mi aveva rivolto un severo monito riguardo quella creatura: “Non infilare MAI le mani qui, nemmeno quando è spenta!”.

La piegatrice manuale era senza dubbio alcuno la mia preferita, forse perché era tra i pochi attrezzi che il babbo mi lasciava usare. Dapprima mi mostrava tutta la sua maestria, la sua tecnica sopraffina, la capacità, spingendo e tirando, allargando e serrando, di trasformare una sbarra di ferro perfettamente dritta in un arco pressoché perfetto, che pareva disegnato col compasso. Inutile dire che io, per età e totale mancanza di muscoli, non cavavo manco una leggera incurvatura… nemmeno dal tondino più minuto che mio padre mi concedeva di torturare, e così lui, amorevolmente, mi dava un aiutino con la sua mano forte e mi lasciava credere di avercela fatta tutta da sola.

Vogliamo parlare poi del trapano a colonna? Quella si che era un’invenzione a dir poco fantastica! Non c’era ferro che gli resistesse, poco alla volta anche il più spesso cedeva sotto al lavorio costante, paziente ed invasivo delle sue armi acuminate. Il papà prima sceglieva e posizionava la punta, a parer suo, più idonea a forare il pezzo in questione, e poi lo muoveva lentamente, delicatamente, su e giù con gesto minuzioso, dando vita a magnifici fiori arricciolati, scarti di ferro che io, ammaliata, puntualmente raccoglievo e custodivo, per farne in seguito tintinnanti sonagli o fantasiosi gioiellini.

Ancora vivo ed accecante è poi il bagliore visto e rivisto cento, mille volte, quando il fabbro giocava a nascondersi il volto dietro quella maschera informe, a dire il vero proprio brutta, ed impugnava un’esile pistola che, una volta azionata, produceva un fastidioso ronzio ed un’effervescente pioggia di rosse scintille, da starci ben alla larga perché, se ti colpiva, bruciava come tanti fiammiferi accesi. La saldatrice! Strumento indispensabile, e fedele compagno di ogni fabbro che si rispetti.

Sorrido ripensando oggi a quanto io mi sia divertita sull’antica bilancia a bascula! Ci stavo comodamente seduta, con le gambette allungate, e facevo scorrere avanti e indietro i piatti sui quali disponevo a mio piacimento i diversi piccoli pesi. Io giocavo, mio papà sudava freddo nel timore che i pesi andassero persi o il meccanismo accusasse i colpi delle mie giocose manipolazioni.

Potrei descrivervi altre decine di attrezzi, grandi e piccoli, complicati e affascinanti, presenti nell’officina del mio fereé, ma c’è altro di cui voglio parlarvi…

Lavori antichi, lavori moderni

Avete idea di quale varietà di manufatti e mansioni un bravo fabbro sia tenuto a saper fare?

Qui non si parla “solo” di realizzare cancelletti e ringhiere, inferiate e corrimani, bensì di far fronte ad una marea di richieste, banali o assurde che siano:

< Egidio, mi faresti il galletto segnavento per il tetto? >

< Egidio, vorrei una buca delle lettere antica, nostalgica; però mi ci attacchi sotto il tubo per infilare i giornali! >

< Egidio, me la fai la panchina per la nonna? Comoda né, che la poverina è già piena di dolori!>

< Egidio, mia moglie vuol vincere il concorso del più bel balcone fiorito, perciò si è messa in testa di aver bisogno delle più belle fioriere artigianali; sai… con riccioli e cose del genere. >

< Egidio, me lo scrivi il nome di casa? >
< Cosa?? >
< Ma si dai! “Casa Matilde”; che lo attacco in bella vista sulla facciata! >

< Egidio, vorrei un appendiabiti resistente, che quelle porcherie di plastica proprio non le sopporto! >

< Egidio, son rimasto chiuso fuori di casa! Devo aver sforzato troppo e ho deformato la chiave; non è che potresti venire tu a scassinarmi… ehm volevo dire… ad aprirmi la serratura? >

Egidio di qua, Egidio di là, e lui si metteva all’opera. Finché si trattava di lavori artigianali li faceva volentieri, con passione e dedizione. Accendeva la vecchia forgia la mattina presto, odore acre e fumo nero riempivano l’aria, e giù a battere e ribattere il ferro incandescente sul massiccio incudine, con il pesante mazzotto prima e il martello poi, e poteva andare avanti tutto il giorno.

L’indomani le mani gli dolevano da morire e mia mamma si arrabbiava perché lui i guanti li usava solo per rigirare il ferro da plasmare, o quando lo immergeva nell’acqua per raffreddarlo tra sbuffi di vapore; graffi ed ammaccature erano dunque inevitabili, ma lui così aveva imparato dal vecchio maestro, suo padre, e così continuava a fare. Clienti entusiasti si prodigavano in mille complimenti, salvo poi rabbuiarsi e lamentarsi quando toccava tirar fuori i dané; non sapevano quante ore di fatica aveva richiesto la realizzazione dei loro manufatti e, anche a spiegarglielo, non ci avrebbero creduto!

Negli anni a seguire le commissioni erano radicalmente mutate e, messa a riposo la forgia, si era passati ai lavori in serie, anonimi e minimalisti ma, badate bene, non più fatti di semplice rozzo ferro, non sia mai! Perciò sul banco da lavoro era comparso il ferro brunito, anticato, zincato e quel che è peggio… miniato! Volente o nolente mio papà si era sempre adattato ai cambiamenti con relativa facilità, ma il minio… quello davvero faticava a digerirlo; esso comportava infatti un notevole surplus di lavoro e tempo prezioso per poche lire in più.

Lui non era portato per la pittura, soldi per pagare qualcuno che lo facesse al posto suo non ce n’erano, ed è qui che entrava in scena la moglie. Precisione e tocco delicato avevano promosso mia mamma al grado di “addetta alla prima mano di minio”; ruggine scongiurata, finanze salve, cliente soddisfatto… insomma tutti contenti.

Primo in classifica tra i nuovi lavori richiesti era senza dubbio la tettoia! Tettoia per l’uscio di casa, per la rimessa delle biciclette e degli attrezzi, per coprire il barbecue in giardino o i bidoni delle spazzature, ma soprattutto tettoia per le automobili, al posto del ben più costoso garage; la realizzazione di quest’ultima era assai impegnativa poiché lunghe travi venivano imbullonate e saldate alle massicce putrelle angolari; il tutto richiedeva parecchie braccia muscolose (fortunatamente per allora era stato assunto il primo aiuto fabbro), tanto spazio per manovrare e numerosi viaggi col furgone per acquistare la materia prima e in seguito posare il lavoro finito. Io adoravo queste “gite” perché trascorrevo l’intera giornata col mio papi e in più mi era concesso di sedermi davanti, nella cabina di guida!

Parola d’ordine “Ammodernare!”

La vecchia officina, fondata decenni prima da nonno Gilardo (la cui sbiadita fotografia in bianco e nero campeggia tuttora sopra al banco da lavoro) ad un certo punto era diventata obsoleta e non più a norma rispetto alle leggi sempre più esigenti. Numerose visite degli ispettori e i minuziosi controlli di sicurezza imponevano di continuo migliorie e modifiche, alcune sacrosante per carità, altre quanto meno ridicole, che a non farle si rischiava non dico la galera ma certamente una multa astronomica, se non addirittura la chiusura dell’attività!

Via subito quei sottili ed opachi vetri del portone, sostituiti da altri ben più spessi, al cui interno passava una retina metallica atta ad impedirne l’infrangersi in mille pezzi in caso di forti urti. E poi le antiquate lampadine a bulbo, penzolanti qua e là dal soffitto, avevano lasciato il posto ai tubi al neon, di lunghezza e numero prestabilito e ovviamente alquanto più costosi.

Non sia mai che nell’officina di un fabbro ci fosse un po’ di fuliggine o di fumo! Quindi immediata istallazione di prese d’aria e rumorosi tubi di aspirazione.

Salire al piano di sopra nell’abitazione del fabbro stesso, per usare il bagno di casa, non era più concesso! I servizi igienici, con wc e lavabo, dovevano trovarsi sul posto, tanto che dall’oggi al domani era spuntato un prefabbricato esterno, dotato di finestrina, atto ad ospitare gli uomini nel momento delle loro necessità corporali (così recitava più o meno la relativa norma di legge).

Che dire poi dei cartelli segnaletici?!
Ne erano spuntati ogni dove, grandi e piccoli, variopinti, con e senza immagini, recanti scritte del tipo:
“vietato l’accesso ai non addetti ai lavori!”
“estintori”
“uscita di sicurezza”
“prese di corrente”
“cassetta del pronto soccorso”
“orari di apertura e chiusura”
“altezza e larghezza della tettoia esterna”
…e via dicendo.

Egidio non poteva né voleva lasciarsi abbattere da simili inezie, quindi si riboccava le maniche, se mai possibile, ancora un po’ più su e via a lavorare, perché aveva una famiglia da mantenere lui, e poi non avrebbe saputo far altro.

Vita famigliare

Il mestiere del fabbro dà tante soddisfazioni, questo sì, ma non è né semplice né comodo e altrettanto si può affermare per la vita dei suoi famigliari.

Se da piccola ammiravo mio padre, fiero alla guida della sua officina, perennemente in salopette blu logorata dall’uso, ed ogni scusa era buona per passare a trovarlo, guardarlo lavorare e a mio modo aiutarlo, crescendo avevo sviluppato una profonda irritazione verso quella sua professione.
Svariate erano le cause di questo mio fastidio nell’avere un papà fabbro…

Spesso non esistevano sabati e domeniche… < Papà deve lavorare.> mi sentivo ripetere, e così addio gite di famiglia e vietato dormire fino a tardi (come si può riposare, quando al piano di sotto tranciano, molano, saldano, martellano ?!).

La sera papà era sempre troppo stanco non solo per chiacchierare con noi figlie, ma persino per ascoltare i nostri resoconti di scuola, e così era la mamma che ci educava e ci seguiva in ogni cosa.

Di far vacanza tutti insieme proprio non se ne parlava! I mesi estivi, col bel tempo e la clientela a casa in ferie, erano i più produttivi; fermarsi era un lusso che il fabbro e la moglie “pittrice e segretaria” non potevano concedersi; e così al mare ci portava nonna Celestina.

Ad un certo punto ho perfino odiato l’essere donna, poiché anche adolescente non avevo sufficiente forza fisica per aiutare mio papà; quello era allora come ora un mestiere per veri uomini (non me ne vogliano eventuali fabbri donne, ma io non ne ho mai conosciute!), ed Egidio aveva avuto ahimè la “sfortuna” di ritrovarsi padre di tre belle figlie…adorabili intendiamoci, ma pur sempre femmine!

C’erano ovviamente anche i lati positivi, come per esempio quando papà mi portava a vedere i suoi lavori, fatti-finiti-verniciati e posati; e allora l’orgoglio nei suoi occhi era anche un po’ il mio.
Unico fabbro del piccolo paese e dei dintorni, Egidio era conosciuto da tutti e questo aveva i suoi piccoli vantaggi, di cui potevo godere anche io.

Da bravo artigiano il mio papà era un uomo tutto d’un pezzo e qualsiasi lavoretto fai da tè era per lui una bazzecola, con notevole risparmio di soldi e tempo!

Da qualche anno l’anziano fereé è in pensione e ha cominciato finalmente a godersi un pochino la vita (e qui potrei aprire il vergognoso capitolo dell’ammontare della pensione di un artigiano della sua categoria, ma è meglio lasciar perdere!) e perfino a portare la moglie in vacanza.

L’officina è sempre aperta, l’attività prosegue a pieno ritmo, portata avanti dagli operai cui ne è passata la gestione; Egidio ci fa spesso una capatina, riprende la sua vecchia postazione e si rimette all’opera per far qualche lavoretto per sé stesso o per un amico, e allora vedi che gli occhi brillano nuovamente e le labbra si incurvano in un sorriso nostalgico e soddisfatto al tempo stesso, segno di un’indelebile passione.

Racconto partecipante al “Concorso Nazionale di narrativa e Poesia Mondo Artigiano” 13ª edizione 2018, a cura di “Confartigianato città di Como” e pubblicato nella relativa antologia.
Se la figura del fabbro ti affascina, segui il personaggio a lui dedicato ne “Le statistiche del trenino” di BluttaBlatta.

Una lettura di Francesca Ravioli
Suoni: Soundbible Mike Koenig

Musiche incompetech.com: “Ancient Rite”, The Entertainer”, Nerves”, “The Builder” by Kevin MacLeod

Chi ha scritto questo racconto

L'ospite: Francesca Ravioli

Classe 1975, moglie orgogliosa di Gio e mamma felice di Nicolò.
Ha una maturità conseguita al liceo linguistico, e una lunga esperienza nel segretariato medico.
Si rilassa con passeggiate in montagna e giardinaggio.
Si diletta con creazioni manuali di bricolage.
Si diverte nella stesura di racconti e nella lettura ad alta voce.