La libertà di credere

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la libertà di credere

La vescica sul tallone pulsa ad ogni passaggio della scarpa sulla carne viva. La suola troppo nuova sdrucciola sulla ghiaia della pedonale che costeggia il lago. Le lievi salite diventano valichi da superare e il sole, implacabile, arrossa la pelle e frigge i pensieri.

Mettere le scarpe nuove non è stata una buona idea. Avrebbe dovuto indossare le vecchie telate, brutte, ma tanto comode: non ne ha avuto il tempo.

Cammina da due ore, due ore intense e vissute al rallentatore, tanto che ad Anna sembra di camminare ininterrottamente da settimane. Il respiro affannoso tiene il passo con la paura costante.

È uscita di casa sbattendo la porta, così di corsa da non accorgersi della scia rosso vermiglio che ha dipinto lungo le scale di marmo levigato, fino all’androne del vecchio palazzo che ha potuto vantare tempi migliori. Il sangue di Luca ha continuato a cadere, fino all’angolo con via Dante, in piccole gocce dal fermaporta in metallo che Anna serra convulsamente nella scarna mano sinistra. Avrebbe continuato a dipingere sull’asfalto con quel pennello improvvisato, se non si fosse risvegliata rabbiosa da un incubo vissuto troppo a lungo. Anna si libera dell’arma improvvisata gettandola oltre l’alta siepe di lauro che ombreggia la strada, regalando qualche metro di fresca ombra in un’estate torrida e sonnolenta.

Come in un sogno cammina lungo le vie che ora, più che mai, le paiono ostili ed estranee. Non voleva arrivare a tanto, non voleva uccidere, ma non prova rimorso. Lo farebbe ancora, mille e mille volte. Spaccherebbe a ripetizione il cranio del suo carnefice provando sempre la stessa euforia liberatoria, salvo trovarsi dopo un istante smarrita, inerte, e con quell’orrendo fermaporta in mano.

Si è innamorata di Luca durante un pomeriggio sul ghiaccio. Si frequentavano ormai da qualche tempo. Un reciproco corteggiamento mascherato da innocente amicizia. Nel corteggiamento non c’è mai niente di innocente e Luca lo sapeva bene. Aveva teso la sua trappola fin dall’inizio, una trappola perfetta scaturita da una mente malata e al contempo lucida. Nulla traspariva all’esterno. Corteggiatore attento e premuroso, riversava su Anna un’ostentata galanteria d’altri tempi. Un savoir faire di un mondo antico, che ha colpito nel segno. Quel pomeriggio sul ghiaccio sono state le forti braccia di Luca a proteggere Anna dalle rovinose cadute con cui si confrontano quasi tutti quelli che indossano i pattini per la prima volta.

“Forse è meglio prenderci una pausa.”
Il braccio forte di Luca sospinge Anna verso la sponda del piccolo lago. Un baracchino improvvisato offre, dietro lauto compenso, tazze di fumante cioccolata calda, densa e scura come lava. Anna ride di gusto quando le labbra di Luca emergono dalla prima ristoratrice sorsata, bordate di un vivido color marrone che si accompagna perfettamente ai suoi occhi nocciolati. I baffi di cacao vengono eliminati da un rapido e timido bacio.

Anna si riscuote dai pensieri. Se quel pomeriggio non ci fosse mai stato. Se quel primo e stupido bacio non fosse stato scambiato, se, se, se, se… 

Una sirena in lontananza la fa sobbalzare. Si acquatta dietro ad un cespuglio di rovi, le mani e le braccia si graffiano. Segni rossi e freschi accompagnano vecchie cicatrici che raccontano una lunga storia di dolore e di angoscia.

L’ambulanza passa sulla strada principale e scompare dietro l’angolo della scuola di paese. Un vecchio edificio giallognolo eroso dal vento del lago. 
Già, il lago. È stato così bello il loro matrimonio nel parco dell’antica villa. Il buffet è stato allestito nei pressi della rimessa delle barche e lo specchio d’acqua restituiva, sdoppiandoli, i sorrisi degli invitati. Luca indossava un completo scuro, con un gran papillon bianco. L’aveva messo per farla sorridere, così diceva. Fino a quel punto mentiva. Lei indossava un abito da principessa. Proprio il tipo di abito che mai avrebbe voluto e di cui si era pazzamente invaghita dalla prima volta che l’aveva provato.
“Tipico atteggiamento da sposa, mia cara.”
Carla l’aveva bonariamente redarguita.

“Carla, oh Carla: dove sarai adesso?”
Anna neppure si rende conto di parlare ad alta voce. Carla era la sua migliore amica, fin da quando, all’asilo, si erano ritrovate a condividere lo stesso vasino della pipì. Un’amicizia quantomai intima e profonda, una testimone di nozze impeccabile. Le aveva organizzato un addio al nubilato meraviglioso. Un fine settimana di sole donne a Parigi. La ville lumière le aveva accolte con lo scintillio di centinaia di luci. Anche gli occhi di Luca avevano scintillato in modo sinistro alla notizia della partenza. Il futuro marito aveva fatto buon viso a cattiva sorte, ma non aveva perdonato a Carla l’avergli rubato Anna. Non aveva perdonato a Carla il loro legame e la loro amicizia. Anna era sua, soltanto sua e così, con un lavoro paziente e costante, era riuscito a dividere le due donne, fino a far scomparire l’una dalla vita dell’altra.

Anna riprende il cammino. Non sa dove andare né per quanto tempo potrà proseguire con i passi strascicati e sempre più stanchi. I ricordi si confondono con il presente e la mente vaga. 

Si ritrova bloccata a terra, con lo stivale di Luca premuto sul volto. È stata quella volta che si è dimenticata di comprargli i suoi biscotti preferiti. Quei biscotti friabili e dolci, perfetti da inzuppare nel latte, ideali per le colazioni dei bambini. Luca non aveva gradito la dimenticanza.
Si ritrova con lo zigomo dolorante e gonfio. L’alone viola del livido si propaga fino al mento e l’orecchio risuona dolente ad ogni parola urlata. Non si ricorda neanche più il perché del pugno di Luca. Ricorda solo il rumore secco, come un ramo che si spezza per il vento, seguito da un bruciore intenso e umiliante.
Si ritrova per l’ennesima volta chiusa in casa, senza chiavi né modo di chiedere aiuto, solo in attesa del ritorno del suo carnefice.

Non è sempre stato così. I primi anni di matrimonio sono stati quelli di una coppia normale. Le violenze sono iniziate pian piano, i soprusi hanno lentamente preso il posto delle attenzioni e la protezione di Luca è diventata controllo totale sulla sua vita.

Anna si ferma a ristorarsi alla fresca fontana zampillante. Una sorsata di acqua gelida inonda la gola riarsa. Si siede sulla panchina di legno coperta da graffiti e disegni. Si stenderà qualche attimo prima di riprendere il cammino, chiuderà gli occhi solo per un minuto, solo per trovare la forza di riaprili su di una vita che, così, non vale la pena di vivere.

Luca si alza dal lucido parquet di chiaro rovere che scintilla come una lastra di ghiaccio alla luce radente del sole d’agosto che tramonta dietro ai rossi tetti delle case di fronte. La tempia gli pulsa e il bruciore si fa più intenso al passaggio della mano tra i capelli. Il fermaporta gli ha procurato un largo squarcio sopra l’orecchio destro. Saranno necessari dei punti.

Con gli occhi ridotti a due fessure, stretti per il dolore, scruta le stanze di un appartamento improvvisamente troppo grande e vuoto. Come immaginava, Anna non c’è.

Si ricorda la lite, l’ennesimo futile motivo che ha fatto andare la moglie fuori di testa. Ricorda le urla di lei, le minacce, i suoi tentativi di calmarla e riportarla alla ragione. Ricorda il fermacarte minacciosamente alzato sopra la sua testa, ricorda il lampo omicida negli occhi di quella donna che ama, ma che diventa via via più sfuggente. Ricorda la sua paura e poi il vuoto. Deve essere rimasto svenuto per qualche istante, giusto il tempo di apparire morto. 

Immagina la paura di Anna, il suo smarrimento. Deve trovarla, deve riportarla a casa prima che si faccia male, prima che si perda nello spazio circostante. La sua mente, ormai, è già persa. 

Anna, la sua Anna non esiste più. Lo aveva detto il Dottor Moresi, ma lui non aveva voluto ascoltare: “Signor Rivaldi, deve decidersi a far internare sua moglie. La malattia progredisce e non è più sicuro né per lei né per Anna, rimanere in casa. Sono necessari medici specialisti che sappiano come affrontare gli eccessi di ira e la violenza che si scatena durante le crisi. È necessario un massiccio trattamento farmacologico per tenerla sedata ed evitare il progressivo aumento degli episodi incontrollabili. Inoltre tra pochi mesi la mente di sua moglie sarà così danneggiata da portarla a credere alle sue sole fantasie. Da non riconoscerla neanche più”.

Luca non aveva voluto credere a Moresi. Illustre luminare della psichiatria, questo è fuor di dubbio, ma sicuramente incapace di vedere Anna come la vede lui, come la vede un marito ancora innamorato.

Luca afferra la rubrica del telefono e compone il 118. In rapida successione avverte le forze dell’ordine e, infine, lo studio del Dottor Moresi. Capita la gravità della situazione l’austera segretaria, un vero mastino a difesa del medico, gli passa il Professore.
“Ho capito Signor Rivaldi, stia tranquillo. Ha fatto bene ad allertare anche l’ambulanza. Sarà necessario il ricovero. L’importante ora è trovarla prima che possa commettere altri atti pericolosi per gli altri o per se stessa. Lei vada a farsi mettere i punti al pronto soccorso. Io mi metto in contatto con la polizia.”

Al diavolo i punti e al diavolo il Dottor Moresi. Non sarà un graffio a fermarlo. Deve trovare Anna, la sua Anna. Deve essere sicuro che stia bene, dopo potrà anche farsi cucire una toppa sull’ennesima ferita di un matrimonio infelice per destino.

Apre la porta, il suo stesso sangue lo guida fino all’androne e poi fino all’incrocio con via Dante. Da lì non vede più tracce, ma conosce Anna, anche se la sua mente contorta è ormai diventata illeggibile. D’un tratto gli viene in mente il pomeriggio sul lago gelato e anche il loro matrimonio nella bella villa antica. Anna è sempre stata affascinata dallo specchio d’acqua e ancora oggi, nei rari momenti di lucidità, gli chiede di accompagnarla sulla riva, là dove le onde si infrangono sulla rena rossiccia, vicino al vecchio porticciolo. Luca si incammina verso la pedonale che costeggia l’acqua. La rivede, vestita di un candido abito principesco il giorno delle nozze. Bellissima e luminosa, ammantata di una felicità che, pian piano, la malattia le ha strappato a forza.

Per quel giorno si era preparato con cura. Aveva girato tutti i sarti della provincia. Desiderava stupirla e farla ridere. Niente di più bello al mondo può immaginare Luca. Niente di più bello della sua Anna che ride. Alla fine lo aveva trovato in una vecchia botteguccia di sartoria. Tra scatole impolverate e scampoli di stoffa, lui spiccava maestoso: un bellissimo ed enorme papillon bianco. Anna aveva riso felice nel vederlo. La sua risata riecheggia ancora nelle sue orecchie. Come quando aveva immerso le labbra nella cioccolata calda per dipingersi un paio di dolci baffi. Quanto aveva sperato in un bacio e il bacio, alla fine, era arrivato.

I primi mesi dopo il matrimonio erano stati felici. Poi, pian piano, piccoli episodi inquietanti: Anna che lo accusava di spiarla, Anna che si dimenticava improvvisamente chi fosse, Anna che si scagliava contro di lui gridando di smetterla di picchiarla. Picchiarla? Luca rabbrividiva alla sola idea e pensare che sua moglie, la sua amatissima moglie, potesse credere a questo lo feriva profondamente. Gli episodi, sporadici, si susseguivano a distanza di mesi e Luca, forse per paura, forse per incolpevole ignoranza, non aveva mai voluto approfondire. Fino al giorno in cui era tornato a casa dal lavoro e l’aveva trovata riversa in bagno con le braccia piene di tagli e una lametta abbandonata nell’angolo sotto il calorifero. L’aveva caricata di peso in macchina e poi di corsa in ospedale.

Mesi di analisi, esami, diagnosi inutili, fino all’incontro con il Dottor Moresi: un luminare dicevano tutti. E il luminare aveva parlato chiaro: malattia mentale. La sua Anna non sarebbe mai più tornata. La sua bellissima moglie era ormai solamente un corpo di donna vuoto e con una mente obnubilata.

Luca ora corre lungo la pedonale. In lontananza ha riconosciuto la maglietta a righe di Anna stesa su di una panchina. La stoffa tesa sul petto che si alza dolcemente ad ogni respiro. Anna è lì, sfinita e addormentata.
Luca si allontana e chiama la polizia.

“Lungo la pedonale all’altezza della fontanella del Cimone? Stia lì e non la lasci scappare, arriviamo subito. Sì, non si preoccupi, il Dottor Moresi è con noi.”

Luca si avvicina alla moglie ed estrae la pistola. Da mesi si preparava a questo momento. Da anni sapeva che mai avrebbe permesso che gli portassero via la moglie. Da sempre sapeva di non poter vivere senza di lei. La polizia avrebbe trovato due cadaveri vicino alla fontanella del Cimone, doveva fare in fretta.

Nell’esatto istante in cui Anna apre gli occhi si ritrova la canna di una pistola a pochi centimetri dal viso. Un urlo di paura muore insieme a lei. Luca non perde tempo, sente le sirene in lontananza, sente la polizia arrivare.

Il Dottor Moresi accelera il passo, ha sentito distintamente due spari e ora corre, insieme agli uomini in divisa. È troppo tardi.

L’autopsia conferma l’omicidio-suicidio.

Il dottor Moresi è accasciato sulla poltrona di pelle del suo studio. Sull’imponente scrivania di mogano scuro è appoggiato un foglietto che il medico legale ha trovato nella tasca di Luca Rivaldi: Anna è solo mia e non permetterò a nessuno di portarmela via. Sono io il padrone della sua vita e della sua morte.

Il Dottor Moresi ripensa al primo colloquio avuto con Anna un paio di anni prima: “Dottore la prego mi aiuti.” Non le aveva creduto, non aveva voluto vedere. Si era preso la libertà di trattarla come una pazza. Si era sentito libero di continuare ad essere l’illustre luminare che tutti credevano e ora, quella libertà si ritorceva contro di lui.

Era colpevole di un omicidio, avrebbe potuto disinnescare la miccia della mente malata che l’aveva commesso. Avrebbe potuto, ma non lo aveva fatto. Ora però aveva la libertà di restituire la verità a due famiglie distrutte, una da un omicidio e una da un suicidio.

“Signora Rossi, mi prenda un appuntamento con l’Ispettor Gambato”.
La segretaria compone il numero con le lunghe dita nodose. Pochi minuti dopo incede con passo sicuro nello studio del Professore: “L’ispettor Gambato l’aspetta domattina alle nove.”

Sarà una lunga notte per il Dottor Moresi. Lo verranno a trovare due fantasmi. Ognuno con la sua storia, la sua verità e le sue menzogne. A lui la libertà di credere ad Anna o a Luca. 

Racconto partecipante al concorso “Premio letterario Antonio Fogazzaro” 2018.
Verità e menzogna ti affascinano? Entrare nelle menti contorte dei criminali ti incuriosisce? Prova a leggere, o ascoltare, il racconto “Bianco, nero, prigioniero” e il racconto “L’Alpigiano silenzioso“.

Una lettura di BluttaBlatta
Suoni: Freesound Kleeb, Sofialomba, Cueckermann, Acclivity, Tieswijnen

Chi ha scritto questo racconto

BluttaBlatta

"Un marito.
Due gatti.
Tanti libri.
Mille parole.
"
Martina Ravioli